Rick Alverson presenta Entertainment

Rick Alverson presenta Entertainment

Neil Hamburger è un comico che non fa ridere e riversa il proprio odio sul pubblico. Unto, sudato, gin tonic sottobraccio, l’unico scopo di Hamburger è “morire” sul palco, nel vuoto pneumatico di un pubblico che non sa come reagire. Rimane in piedi, da consumato stand-up comedian, di fronte al pubblico, raccontando barzellette e gettando tutto il suo astio su chi non sa apprezzare la sua arte. Neil Hamburger non esiste: è una creazione di Gregg Turkington, comico americano cresciuto negli Stati Uniti, che porta il proprio alter-ego in scena da oltre vent’anni. Neil Hamburger è uno dei più interessanti casi di decostruttivismo della comicità da palco, una sorta di performance art che parla della stand-up comedy, più che farla.

Il comico“, interpretato da Gregg Turkington, è il protagonista di Entertainment, il film di Rick Alverson che verrà presentato in anteprima italiana sabato 8 ottobre alle ore 22.30. Per l’occasione, proponiamo un’intervista di Rick Alverson con il portale The Film Stage (l’articolo integrale è disponibile qui):

Hai fatto due film che non hanno avuto molto seguito. Quindi, quando è arrivato The Comedy, sei finito sotto i riflettori e le richieste di interviste hanno cominciato ad arrivare. Questo non è cambiato con Entertainment, anzi è aumentato. È strano dover essere disponibili a parlare di lavori così, diciamo, ermetici?
Ci penso spesso sai, ci sono molti registi che scelgono di non divulgare i loro segreti. Credo che parlare di ciò che sta dietro a film come The Comedy e Entertainment sia giusto: uno dei miei obiettivi è quello che si esca dalle visioni combattuti. Non me la sento di parlare del racconto, dell’arco emotivo o dell’incedere del film. Preferisco parlare delle componenti formali e della composizione perché lo scopo di simili film è quello di farci riconsiderare la relazione tra forma e contenuto, facendoci guardare oltre la forma e direttamente al contenuto. L’enfasi che viene posta sul contenuto tutt’intorno a noi, attraverso i media, è davvero sconvolgente. La cosa ancora peggiore, è che si finisce per esperire il solo contenuto, a spese della forma.

Cosa te ne sei fatto della ricezione del tuo film precedente, Entertainment? L’accoglienza ti ha sorpreso?
È stato sorprendente e soddifacente. Sono felicissimo che i miei interessi e obiettivi trovino il favore della gente. Mi sento umiliato e eccitato da tutto questo… sfida il mio pessimismo [ride].

Molte delle ambientazioni del film sono vuote (i paesaggi) o banali (i club, i motel); in generale, non posti piacevoli in cui stare. Ma il modo in cui le racconti all’interno dell’inquadratura è, a modo suo, bello. Come trovi l’equilibrio tra la bellezza dell’immagine e un senso di tedio, vuoto e morte?
Sono consapevole che quelle immagini sono stuzzicanti e belle da vedere, perché richiamano la bellezza simmetrica del cinema. Io e Lorenzo Hagerman, il mio direttore della fotografia, sapevamo che sarebbero state immagini linguisticamente gradevoli anche per il pubblico, ammiccando contemporaneamente sia al cinema classico che al cinema d’autore. Mi soddisfano sia esteticamente, sia per lo stretto legame con la storia che raccontano, per il loro essere immagini classiche, anamorfiche, simmetriche ed estremamente composite. Prima che regista, sono spettatore, e cerco di creare un’esperienza che sia il più possibile universale e popolare. Entertainment è il mio test più grande. Abbiamo fatto vedere inizialmente il film a più di quaranta persone – un pubblico abbastanza variegato, cosa che mi ha un po’ contrariato, perché ho intenzione di inseguire quel tipo di universalità – e ho avuto modo di capire se ciò che cercavo di raggiungere stava funzionando. Era un film irrequieto nel modo giusto? Creava un gioco di repulsione e attrazione stile gatto con il topo? È funzionale? C’è equilibrio? Siamo in grado di trattenere il pubblico per un tempo sufficiente perché l’esperienza abbia un senso, senza farli insomma andare via dal cinema, più o meno come succedeva nel precedente The Comedy? Ecco, insomma. Non so se ho risposto alla domanda.

La struttura del film sembra molto fluida. Si basa sulla realtà? Accade in ordine cronologico? Che orientamento hai seguito per ordinare le scene?
Il montaggio è per me una parte integrante del processo di scrittura. Di solito si riproduce in modo attento qualcosa che è stato immaginato – quello che ne risulta è un oggetto morto, molto diverso dalla natura elastica e infiammabile che è propria del mondo reale. Trovo eccitantissimo rispondere in loco alle limitazioni, non solo in termini logistici e produttivi, ma anche in modo creativo, incorporando tutto ciò all’interno del film. Mi comportavo così agli esordi, e lo faccio tuttora – sono abbastanza fortunato da avere produttori e investitori che mi permettono di alterare radicalmente la sceneggiatura se sento che è necessario. Nessuno dei miei film è uguale al modo in cui era stato scritto.

Com’è il tuo rapporto con Michael Taylor, che ha montato il film con te? È facile guardare il film e vedere dove c’è chiaramente la sua mano?
Ciò che caratterizza la mia relazione con Michael è il modo in cui montiamo insieme. È un metodo che abbiamo utilizzato in The Comedy, e che spero useremo in futuro. I miei istinti sono ciechi e profondi, e ho bisogno di uno sguardo esterno; Michael ha invece bisogno dello sguardo oggettivo di uno spettatore. Questo metodo di lavoro mi permette anche di mantenere una certa distanza dal prodotto. Lui mette insieme il girato, poi ci lavoriamo per una settimana, o dieci giorni. Funzioniamo bene insieme. Le scene prendono forma partendo da Michael, con me che, pur partecipando al processo, sto letteralmente seduto in fondo alla stanza. Dopo quella settimana-settimana e mezza prendo il film e lo taglio per sei settimane se non di più. Poi gli rispedisco il lavoro, lo guardiamo, ci confrontiamo e ci mettiamo nuovamente insieme al lavoro.

Passiamo alla scrittura. Ero un po’ sorpreso all’idea di un film di Neil Hamburger, perché immagino che Gregg Turkington non volesse che il pubblico sbirciasse dietro le quinte del suo personaggio.
È vero.

Era riluttante a dare alla gente anche solo un’idea di come potesse essere la psicologia del personaggio?
Siì, era assolutamente scettico e preoccupato. Fin dalle prime conversazioni era chiaro che nessuno dei due voleva che il film fosse la storia di Neil Hamburger. Sicuramente non doveva essere un veicolo promozionale per un personaggio comico. Gregg è una persona meravigliosa che merita una carriera di successo più di chiunque altro. Quando abbiamo parlato di una ricontestualizzazione del suo personaggio, un processo che avrebbe sovvertito le aspettative perfino dei suoi fan, è rimasto molto colpito. Era la prima volta che permetteva di usare il suo personaggio. La creazione di questo personaggio, “il comico”, è stato un processo lungo, lunghissimo.

Molti momenti ritraggono Gregg in atteggiamenti brutti, certamente non lusinghieri…
Penso che sia lui che io abbiamo provato piacere a compromettere il personaggio. Abbiamo potuto farlo perché l’avevamo reso un prodotto del film, un ibrido in cui coesistevano numerosi elementi, non necessariamente propri di Neil Hamburger. Il personaggio esiste nello spazio filmico, e sono molto interessato al momento in cui iniziamo a preoccuparci del nostro rapporto con il protagonista. Insomma, potevamo permetterci di comprometterlo, senza per questo rovinargli la carriera, mi capisci? [ride]



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