Jakob Brossmann presenta Lampedusa in Winter

Jakob Brossmann presenta Lampedusa in Winter

Lampedusa in Winter, co-produzione austriaca girata dal giovanissimo Jakob Brossmann, svela la parte nascosta di un’isola troppo spesso dimenticata. Girato nell’arco di due anni, con una troupe ridottissima e l’aiuto di un’interprete poi diventata produttrice (Stefania Schenk Vitale, che introdurrà il film al pubblico del Festival venerdì 7 ottobre alle ore 20.15), Lampedusa in Winter ha debuttato al Festival del film Locarno, primo atto di un interessante percorso festivaliero che ha incluso la Viennale, gli IDFA e il festival di Istanbul e Sidney.

Vi proponiamo in questa sede un’intervista (versione integrale qui) che VICE ha realizzato assieme al regista pochi giorni dopo il grande successo di Locarno.

Come hai deciso di fare un documentario su Lampedusa?
Molto prima del naufragio del 3 ottobre, all’inizio del 2011, guardavo delle immagini di Lampedusa e ho pensato che queste potevano fomentare la paura di un’ondata [migratoria]. All’epoca stavo lavorando a un progetto sulle deportazioni dei migranti nel Terzo Reich – cioè persone dell’attuale Austria che volevano emigrare in Svizzera ma che venivano respinte. Le domande che emergono da queste due situazioni non sono così diverse e credo che con la dovuta distanza ci si possa rendere conto di cosa sia l’ingiustizia, anche oggi. Stiamo iniziando a capire; spero che poi non sarà troppo tardi come fu troppo tardi negli anni Quaranta. Di fronte a queste immagini sempre uguali di Lampedusa mi sono chiesto: che cosa succede dietro a queste foto? Cosa succede dietro le videocamere delle televisioni? Come si relazionano gli abitanti a questa cosa? Quando siamo arrivati sul posto abbiamo raccolto anche reazioni di razzismo e resistenza: anche a Lampedusa ci sono persone razziste, ma non è l’elemento centrale nel discorso. Per me è rilevante far vedere come un posto così influenzato dall’esterno abbia una vita del tutto normale e abbia sviluppato una solidarietà di fondo.

Quello che ho notato è che nessuna parte di tutto il sistema – gli abitanti, i militari, i migranti – è più “protagonista” dell’altra. L’ho trovato un approccio molto democratico nei confronti di tutti i coinvolti sull’isola. Come avete sviluppato la ricerca?
L’equilibrio è venuto col montaggio – con Nela Märki. Per noi era importante avere accesso ai protagonisti, prenderci del tempo per diventare quasi persone del posto. Ci siamo concessi il lusso di costruire delle amicizie e allacciare rapporti, abbiamo ascoltato molti problemi dell’isola che già i giornalisti avevano già messo in luce – il reparto maternità, la scuole mancanti… questioni che non entrano neppure nel film.  E poi è successo che abbiamo deciso insieme: quali sono le situazioni in cui vi possiamo accompagnare? C’è stato lo sviluppo di una serie di tematiche – arrivare, partire, la terra, il mare – e sul posto abbiamo cercato delle situazioni che le raccontassero. Quando sono scoppiati i conflitti diventati poi centrali nel documentario e che non avevamo potuto “programmare” – lo sciopero dei pescatori e le proteste dei migranti—le parti coinvolte avrebbero potuto dirci “Ehi voi, con quella stupida videocamera, sparite!”… e non l’hanno fatto.

Come avete avuto accesso alle navi e alla vita dell’equipaggio della Guardia Costiera?
C’è sempre questo aspetto di “Cinema 2”, cioè quello burocratico. Per mesi Stefania [Stefania Schenk Vitale, produttrice] ha chiamato ogni giorno Roma per ottenere un permesso. Ovviamente la maggior parte dei militari – principalmente uomini, c’erano pochissime donne – è “bloccata” lì e anche con loro si è instaurato un rapporto molto paritario. Per me è importante non valutare le cose sul piano del dualismo “colpa/non colpa”, un atteggiamento molto comune da parte di persone di sinistra che giudicano così chi è impiegato in questo tipo di apparato. Credo che ai militari con cui abbiamo lavorato abbia fatto molto piacere vedere che c’era qualcuno che non la pensava per forza così. Da anni i guardacoste fanno un lavoro importantissimo e nessuno dice grazie – eccetto i lampedusani e i superstiti salvati. Spero che il film riesca in qualche modo a mettere in luce anche questo problema, e cioè che il salvataggio via mare sarebbe in realtà facilmente evitabile. L’urgenza di stabilire una rotta navigabile sicura tra il Nord Africa e la Sicilia è una questione di grande necessità ma purtroppo, nel discorso sulla migrazione verso l’Europa, è una delle ultime priorità.

Avete fatto vedere il film alle persone con cui avete lavorato?
Sì, ma purtroppo non potevamo permetterci di tornare sull’isola di persona. Ero molto nervoso… il feedback è stato ottimo. Durante la fase di montaggio ci siamo chiesti se ci fossero delle aspettative da parte loro, e non ce n’erano. Sono abituati a venire “investiti” da tutte le altre situazioni e forse questo è il primo progetto in cui si sono sentiti coinvolti. Si sono fidati ciecamente del nostro montaggio.

Ecco, com’è stato il processo di montaggio, sapendo che volevate restituire una rappresentazione equilibrata?
Alla fine del primo blocco di girato – secondo il cameraman abbiamo qualcosa come 100 ore di materiale, ma io credo siano anche di più – ci era chiarissimo (ed era prima del 3 ottobre) quali fossero i conflitti centrali, così abbiamo cominciato a raccontarli. Nel film si vede in modo abbastanza chiaro: parlo dello sciopero dei pescatori e della protesta dei migranti. Ma sul posto sembrava che tutti dicessero il contrario di tutto. Quando poi ci siamo seduti al tavolo di montaggio, dopo settimane abbiamo iniziato a capire cosa era successo. Montando l’infuocata riunione comunale durante lo sciopero, ad esempio, ci siamo resi conto che Giusi Nicolini aveva preso la situazione in mano, in parte risolvendo i problemi. Quando abbiamo assimilato i conflitti che ci interessavano, siamo tornati sull’isola sapendo cosa ci serviva ancora per far sì che queste tensioni emergessero in modo chiaro nel film, e anche che tipo di comportamento dovessimo avere noi. Nel frattempo era successo il 3 ottobre, ed era ovvio che anche noi giocavamo un certo ruolo. In quel momento avevo l’infrastruttura, i contatti sul posto, la conoscenza, il team e sarei potuto tornare a Lampedusa il 4 ottobre, ma non l’ho fatto, molto consapevolmente. Anzi, ho aspettato che se ne andassero tutti. Sono tornato alla fine del gennaio 2014, anche per comprendere questo vuoto.

E ora, che succede?
Speriamo che la società civile apprezzi il film, anche se temevamo molte critiche perché non c’è nulla su Frontex, non si parla dei conflitti nei paesi d’origine dei migranti. Ma per il momento abbiamo ricevuto solo commenti ottimi e tutti sono grati per il tipo di prospettiva che offriamo. Spero di essere riuscito a fare un film che sia un arricchimento per lo spettatore sia a livello estetico che intellettuale ed emotivo. E magari che sia anche uno stimolo per far cambiare la discussione in merito al tema, almeno un po’.

Quindi avevi uno scopo preciso quando hai fatto il film.
Lampedusa in Winter è un film politico. In realtà, tutto è politica. Soprattutto lo è l’attitudine nei confronti dei protagonisti. Sorge la domanda: dove bisogna rivolgere la propria attenzione e consapevolezza? Dove e come si possono drammatizzare questi eventi? Anche questa è una questione politica. Senz’altro ci tenevo a dissipare i timori della gente rispetto all’argomento, ma soprattutto vorrei ci fosse un invito alla riflessione individuale quando si parla di migrazione.



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