Matthias von Gunten presenta ThuleTuvalu

Matthias von Gunten presenta ThuleTuvalu

Matthias von Gunten ha realizzato diversi film, tra i quali Max Frisch, Citoyen (2007), Ein Zufall im Paradies (1999) e Reisen ins Landesinnere (1988) prima di dirigere, nel 2014, ThuleTuvalu. Il film è stato presentato a numerosi festival tra cui il Visions du Réel, uno dei più famosi festival di cinema documentario, all’Hot Docs di Toronto, al DOK.Fest di Monaco e al prestigioso Festival del film Locarno.

ThuleTuvalu verrà proiettato venerdì 7 ottobre alle ore 18.15 presso il Cinema PortoAstra, per una proiezione speciale in collaborazione con AcegasApsAmga.

Utilizzando immagini impressionanti, Matthias von Gunten racconta le vite degli abitanti di Thule in Groenlandia e Tuvalu nel Sud del Pacifico, vite che, a causa dei cambiamenti climatici, stanno attraversando un profondo cambiamento. In ThuleTuvalu, il regista è riuscito a tratteggiare il toccante ritratto di persone i cui destini sono intimamente legati sebbene vivano ai poli opposti della Terra, separati da oltre 12mila chilometri di distanza.

Matthias, scegliendo la Groenlandia e Tuvalu, hai scelto dei luoghi lontani non solo dalla tua Europa, ma lontani in senso assoluto. Qual era l’idea originale alla base di ThuleTuvalu?
C’era la folle idea che questi luoghi estremamente lontani fossero fisicamente uniti – di fatto, i ghiacci che si sciolgono da una parte corrispondono al livello del mare che si alza dall’altra. Potevo quasi vedere questo sistema di “vasi comunicanti” e immaginavo, pensando alla gente di Thule e Tuvalu, i modelli globali materializzarsi in questo affascinante microcosmo.

Non esiste un documentario più “globale” di ThuleTuvalu, viste le location scelte: il punto abitato più a Nord della Groenlandia, e lo Stato più piccolo (e a rischio) del Pacifico. Sono stati questi estremi ad affascinarti?
Sì, era una cosa che trovavo molto intrigante: gli antipodi di Thule e Tuvalu rappresentano, in un certo senso, il mondo intero. Immaginavo che due luoghi così distanti mi avrebbero permesso di rendere tangibile quello che potrebbe essere chiamato il peso del mondo. Ma credo anche che le incredibili dimensioni della Terra, di cui ti puoi rendere conto quando fai dei voli molto lunghi, non siano percepibili attraverso il cinema.

Come ti sei documentato per le riprese, viste le evidenti sfide climatiche e culturali
La mia idea era: guarda, prova, agisci in base a quello che trovi. Altri tipi di ricerche non sarebbero stati possibili. Ciò non significa che non mi fossi preparato. Ho letto, cercato indirizzi in internet, trovato contatti, guardato film. Ma mi era chiaro che le cose sarebbero andate avanti lo stesso. Senza questa apertura, e la sensazione che avrei comunque trovato delle soluzioni in loco, avrei mollato l’idea ancora prima di iniziare. Avevo già girato all’estero, in realtà; a prescindere dal luogo che scegli, incontri persone e puoi sempre comprenderle. Sembra molto banale, me ne rendo conto, ma per me è un’intuizione estremamente importante che mi dà la sicurezza di poter andare ovunque e poter comunque trovare un accordo con la gente.

I protagonisti, molti dei quali non parlano inglese, sembrano fidarsi di te. Come riesci a stabilire questa fiducia e intimità?
Credo che i requisiti più importanti siano un tempo sufficiente, un reale interesse per le vite delle persone che hai davanti e la disponibilità a mostrarti per ciò che sei. Sono stato in entrambi i luoghi tre volte prima di iniziare a girare, in modo da conoscere le persone e dare modo a loro di conoscere me. Ciò ha stabilito un legame di fiducia che si è rivelato essenziale per il film… dopotutto, non era un film per specialisti, ma un film sulle persone!

In termini di equipaggiamento, a cosa bisogna fare attenzione quando si filma nei tropici umidi di Tuvalu, o nel clima artico di Thule?
Non ci sono stati grossi problemi tecnici. A dispetto dell’aria umida e salmastra, a Tuvalu non si è arrugginito nulla e non si sono mai ossidate le attrezzature elettroniche – anche se abbiamo ovviamente fatto molta attenzione. Sapevamo già di possibili problemi nell’Artico, soprattutto nei momenti di passaggio da caldo a freddo (da esterno a interno, per esempio). Abbiamo fatto vari test, e abbiamo capito che determinati treppiedi si sarebbero mossi fluidamente al freddo solo con un particolare tipo di lubrificante. Il problema peggiore era la breve durata delle batterie con le basse temperature. Ma avevamo escogitato una scappatoia: un operatore teneva le batterie a contatto con il suo corpo! Non c’è stata una sola interruzione significativa durante le riprese. C’è anche da dire che le videocamere, al giorno d’oggi, sono sorprendentemente robuste.

Che dimensione aveva la sua troupe a Tuvalu e a Thule, e perché?
Abbiamo sempre viaggiato in tre: io, l’operatore e il fonico. Questa si è rivelata essere la dimensione ideale. Non volevo un gruppo di lavoro numeroso in ambienti così delicati. Essere in tre ci ha resi molto flessibili e, anche se eravamo un po’ lenti, ci aveva dato tempi di lavoro adeguati a quelli dei luoghi che ci ospitavano. In più, le nostre personalità erano davvero compatibili.

Quali sono state le sorprese più belle e i problemi più grandi incontrati a Thule e a Tuvalu ?
Il problema più grande in entrambe è stato affrontare il tema del progressivo cambiamento climatico senza forzare la mano delle persone, strumentalizzandole. Le loro vite non sono incentrate su questo: tocca a loro scendere a patti con la vita di ogni giorno, mantenendo un atteggiamento positivo. Bisognava riuscire ad armonizzare questi contrasti, e questa è stato una delle mie principali missioni da regista. La sorpresa più bella è stata alla fine delle riprese, a Qaanaaq, quando Rasmus è venuto da me e mi ha dato un piccolo orso polare che aveva scolpito in un osso, abbracciandomi. Ero così felice!

Il film non ha una voce over.
Per molto tempo ho pensato di includere un testo in prima persona, ma alla fine la voce over si rivelava più fastidiosa che utile. Sembrava davvero che ci fosse qualcuno di troppo. Il film ha iniziato a funzionare quando ci siamo affidati interamente ai nostri protagonisti e non abbiamo cercato di trasportare il senso verso concettualismi vari.

Quanto è durata la fase di montaggio? Che dubbi vi ha creato?
Il montaggio è durato un anno. Ci sono state varie pause lungo il percorso. Diciamo che è stato un supplizio! Per molto tempo, non riuscivo a capire come il film potesse funzionare. La difficoltà maggiore stava nel trovare un’equilibrio tra l’aspetto culturale e umano, e il contesto in cui le persone si trovano a vivere. Se si mostrano solo le loro vite, diventa un film etnografico; se ci si focalizza sui cambiamenti climatici, diventa un film noioso. Trovare le giuste proporzioni: questa è stata la sfida più grande.

Gli abitanti di Tuvalu e Thule avranno modo di vedere il tuo film?
Lo vedranno sicuramente! Non so se lo vedranno in DVD, o se andrò io lì di persona. In entrambi i casi, mi piacerebbe presentarglielo di persona.  Ma questo significherebbe, dati gli orari delle navi, fermarsi a Nanumea almeno per quattro settimane, quindi ci metterei sei settimane tra andata e ritorno. A Qaanaaq ci vorrebbero dieci giorni. In totale, mi porterebbe via un bel po’ di tempo. E sinceramente, nemmeno so quanto potrebbero essere interessati. Sono entrambe culture che si concentrano su fattori tangibili e pratici; per loro il film ha un’importanza marginale.

In ThuleTuvalu rievochi la questione della fine del genere umano. Non c’è speranza per Thule, per Tuvalu, per tutti noi?
Non credo di evocare una simile questione. Si tratta di una trasformazione incredibile e senza precedenti. Attraverso il riscaldamento globale stiamo cambiando l’intero pianeta e così facendo alteriamo le vite di innumerevoli persone. La cosa mi interessa soprattutto in termini culturali. Anche perché, quando le persone vivranno in modi totalmente diversi, gli abitanti di Tuvalu nemmeno abiteranno più le loro terre. Se tutto ciò continuerà, sempre più persone condivideranno un destino uguale o simile.



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